Un castagneto (e un monastero) per rigenerare l’Appennino:
l’esperienza di Marola
Ringrazio per lo spazio riservatomi in un convegno come questo che coinvolge attori e relatori impegnati su progetti di livello nazionale (come PNRR, Green Community, la Montagna del Latte) e che operano con competenze molto alte in settori quali l’agricoltura, le foreste, l’economia del territorio. L’Associazione che rappresento (AACMM – Associazione Amici del Castagneto Matildico di Marola) è invece una realtà piccola e giovane: poco più di 100 soci -sognatori e dieci anni di vita; opera su un territorio di 56 ettari di castagneto ( in buona parte abbandonato) che tiene in usufrutto dalla Diocesi di Reggio Emilia: ha finalità culturali - forse spirituali - e qualche ambizione educativa, forse sociale. Si ispira alla Laudato Sii. Però il tema del convegno “Curare il bosco, rigenerare l’Appennino” in qualche modo ci interpella: anche noi curiamo il bosco, o meglio ce ne prendiamo cura. Mi piace declinare in modo più affettuoso questo verbo tanto caro anche a Papa Francesco. E allora, “si licet magnis componere parva”, osiamo pensare che anche un piccolo castagneto come il nostro possa contribuire a rigenerare l’Appennino

La Sylva Maraulæ
Il castagneto di Marola non è un castagneto qualunque: privilegiato per la sua posizione geografica (800 m. sul livello del mare, quindi situato al di fuori dell’ areale tipico del castagno), viene a trovarsi come l’unico di discreta estensione nel medio Appennino. Fortunato, perché la sua storia si intreccia con quella di Matilde di Canossa (e questo è un valore aggiunto almeno in Emilia e in Toscana) e non tanto perché la contessa lo ha voluto e rifondato nove secoli fa, ma soprattutto perché lo ha affidato alla sapienza e al lavoro dei monaci del cenobio che stava nascendo ; così le vicende del castagneto per almeno tre secoli si sono svolte strettamente connesse a quelle del monastero benedettino che ne ha regolato la vita, ma soprattutto, fatto assolutamente straordinario, ne ha raccontato la storia in un “cartolario” di oltre 1200 pergamene. E questa storia ora possiamo raccontarla noi. Per circa duecento anni lo scriptorium del convento che in breve tempo da ospitale diventa cenobio poi monastero, registra giorno dopo giorno tutto quello che riguarda la vita del monastero, quella religiosa e quella economica, quella della chiesa e quella del bosco, che nei documenti diventano spesso una cosa sola. Così oggi del bosco conosciamo tutto: quando nasce, come e dove si espande, chi lo lavora e cosa produce, i nomi dei luoghi e degli affittuari – anche quelli delle donne -, la quantità e la qualità dei raccolti, i dati e le date, in una sequenza che è già una narrazione. E ci restituisce uno spaccato della vita e della situazione economica e sociale di un pezzo d’Appennino nel cuore del medioevo.
Un castagneto matildico, anzi benedettino:
il Sesto di impianto matildico
Una tradizione tenace vuole che sia stata Matilde di Canossa a far conoscere la coltivazione del castagno nelle sue terre dell’Appennino tosco-emiliano; e che anzi sia stata sua madre Beatrice a portare il castagno dalla Lorena, sua terra natale, prima a Frassinoro nell’Appennino modenese e poi di là in quello reggiano. E’ una tradizione affascinante, tanto che nella storia dei castagneti si è chiamato “sesto di impianto matildico” quel criterio/metodo che gli agronomi e gli studiosi hanno in parte ritrovato, o creduto di ritrovare in tanti castagneti dell’Appennino tosco-emiliano. Di fatto non si è trovata traccia, almeno fino ad ora, di precisi regolamenti in questa direzione: certamente Matilde di Canossa riconoscendo (per prima forse negli anni appena dopo il mille) il valore insostituibile del castagneto per la sopravvivenza di tanta parte della popolazione della montagna – in tempi in cui in Europa ancora non era conosciuta la patata- ha difeso queste coltivazioni, ne ha migliorato la produttività, ne ha protetto e regolamentato la raccolta; possiamo immaginare, con buona verosimiglianza, che sotto la guida sapiente dei monaci siano state messe a dimora nuove piante in aree vocate, nel rispetto di un criterio agronomico che poi la leggenda ha voluto chiamare matildico, dove le piante prima allineate in forma libera, vengono disposte ai vertici di triangoli sfalsati, ad una distanza di dieci metri: questo per consentire ai rami di crescere liberi, di respirare aria e sole, e al sottobosco di far crescere l’erba per il pascolo.
Nella realtà delle cose dopo mille anni, nei castagneti di memoria matildica dell’Appennino tosco-emiliano (da Cervarezza a Sillano, dal Cerreto a Sassalbo) il disegno dell’impianto a “sesto matildico” è difficilmente riconoscibile tra i castagni secolari, ormai sempre più rari, le ceppaie sempre più numerose, le giovani piante nate casualmente accanto o al posto di quelle antiche, le “socche” sepolte dai polloni. Il bosco di Marola non fa eccezione: le tracce d’impianto matildico sono ormai rare e il paesaggio è quello dell’ impianto a “rittochino” che ha preso il sopravvento nelle zone non pianeggianti. Ma non è completamente fuori luogo definire matildico il sesto di impianto medievale: molti secoli fa, nel mondo romano in cui si conoscevano le castagne e se ne praticava la coltivazione, nell’ambito della trattatistica latina anche classica, un naturalista come Plinio il Vecchio e un agronomo come Columella avevano individuato e descritto questo metodo di impianto con uguale precisione. È assai probabile che i testi di questi antichi autori fossero presenti negli scriptoria e nelle biblioteche benedettine. Quindi anche a Marola.


Il castagneto a Marola prima di Matilde
I castagni a Marola preesistevano a Matilde di Canossa e probabilmente di molti secoli, se nella prima egloga virgiliana (siamo intorno al 40 a.C.) leggiamo che Titiro, che è figura di Virgilio esule, aveva trovato nelle terre dell’Appennino che lo accolgono quei “ dolci frutti e tenere castagne” che aveva dovuto lasciare nelle campagne native di Mantova: il racconto è di Donizone, sono versi di poeta a poeta, ma in questo caso le ragioni della poesia sono degne di fede : e Donizone scrive tutto questo in età matildica, quando poteva essere smentito. Dobbiamo pensare il nostro Appennino nel medioevo interamente ricoperto di boschi folti e selvaggi, una distesa di foreste a tratti impenetrabile dal crinale alla pianura, attraversata da strade, o tracciati di strade: strade di passo che provenendo dalla Toscana (Lucca era la città dei Canossa), portavano alla pianura padana, a Mantova, la città dove Matilde era nata. Tra le due città, che sono quelle della sua vita, correva la strada che ella più volte ha percorso con la sua corte; strade di cui si occupavano anche i suoi sudditi , e che lei fortificava con i suoi castelli e rendeva sicure e sacre edificando chiese e ospitali: uno di questi tracciati doveva passare anche da questa porzione d’ Appennino, sfiorando il castello di Carpineti e in direzione di quello di Canossa: Marola deve essere nata così, in questa area di strada, come una delle cento chiese che la tradizione attribuisce a Matilde, l’unica però - almeno in Italia - di cui sia certa e documentata la fondazione matildica. Poi la poesia di Donizone aggiunge qualcosa alla storia e racconta l’occasione precisa di questa fondazione: a seguito del dignum colloquium che Matilde aveva convocato nella sua rocca di Carpineti nell’autunno dell’anno 1092, nel corso del quale un eremita di nome Giovanni che già viveva in povertà nel bosco del monte Borello aveva esortato la contessa con parole ispirate e appassionate a continuare una guerra “giusta” contro l’Imperatore Enrico IV, mentre gli alti prelati e consiglieri sostenevano le ragioni della pace. La guerra risultò vittoriosa e, come segno di riconoscenza Matilde fa erigere una chiesa nel luogo dove sorgeva l’ umile ospitale dell’ eremita Giovanni, e fin da subito la sostiene con donazioni di terre, boschi e castagneti di cui i benedettini si prendono cura. E’ il primo nucleo del futuro castagneto. A sostegno dei monaci del cenobio ma anche dei poveri, e di tutti: bisognosi, ammalati, pellegrini. Ma a questo punto entriamo nella storia e sono i documenti a parlare.
Castagneto matildico e benedettino: il cartolario
Scorrendo le pergamene che riguardano i primi secoli della storia del Monastero di Marola, balza all’occhio la stretta connessione tra monastero e castagneto: in sylva maraula… apud sylvam maraulæ dove con il termine sylva viene designata l’intera area boschiva, che poteva essere in parte un vero castagneto (terre castaneate), ma anche un bosco ibrido, un insieme indistinto di castagni adulti e castagni novelli (terre buscatae) o di boschi cedui (stalaria), di piante ancora selvatiche o già innestate o un terreno ancora forestum dove i castagni si contendevano lo spazio vitale con le querce: che sono poi le roverelle che hanno infestato e continuano ad infestare il castagneto di oggi. Ai margini della selva si vanno allargando gli spazi “roncati”, i campi da coltivare sottratti al bosco: si può dire che intorno al monastero ci sono ormai le condizioni per una sorta di autonomia alimentare. Gli affitti spesso accanto a uova, galline, focacce, “brancate” di canapa, prevedono anche alcuni sestari o terziari di castagne, più spesso secche, da consegnarsi a Natale; e qualche volta doveva arrivare al monastero anche qualche “aporto” di castagne fresche o di formadio. Gli stessi documenti fanno rilevare d’altra parte che il monastero si trova al centro geografico e amministrativo della selva stessa, la quale – si evince dalla successione delle carte – non è più solo il monte Borello ma guarda lontano, da un lato verso la pianura e dall’altro verso il crinale e il valico dove Marola estendeva ormai il suo dominicato; e anche lassù i boschi rigenerati davano ulteriori frutti.
Coltivare e innestare: il bosco diventa un frutteto.
Due documenti esemplari: siamo nell’aprile del 1102, Matilde di Canossa ha poco più di cinquant’anni e vive un momento di relativa tranquillità. Così da un lato arricchisce Marola con la nuova donazione all’eremita Stefano, priore del convento, di un castagneto a Plano de Lacu, (oggi Pian del Lago), vicino all’abbazia, rifondandone in questo modo la storia e la missione economica e spirituale; a pochi mesi di distanza, in un altro luogo dell’Appennino, a Carpineti, Matilde prende sotto la sua protezione l’ospitale di Campo Camelasio, nei pressi di Bismantova, lo dota di castagneti (partem vicinae silvæ) e lo affida anche in questo caso ad un uomo di fede, il prete Gerardo in quanto – specifica il documento - sapeva coltivare e innestare i castagni (coluisse et inseruisse castaneas ) e, siamo autorizzati a pensare che ne diffondesse la tecnica e l’arte. Questi due documenti chiariscono da soli che ha un senso cercare una piccola storia dei castagneti in età matildica, che ha a Marola il centro ma che riguarda l’economia di tutto l’Appennino. Appare evidente che in entrambi i casi monastero e castagneto sono pensati strettamente uniti e necessari uno all’altro come recita la regola benedettina (ora et labora); sono istituiti ad “usum pauperum” a confermare la politica della contessa nei confronti dei cosiddetti poveri, quelle “minores personæ” a cui fanno riferimento tanti suoi atti. Monastero e bosco di Marola sono eredi del romitorio-ospitale di Giovanni; l’ospitale di Campo Camelasio è istituito specificatamente per questo scopo. Il ruolo del castagneto è evidente in entrambi i casi. Vale la pena di sottolineare che questi luoghi portano ancora oggi i segni di quella che potremmo chiamare politica economica matildica: il castagneto di Marola risulta il più esteso nel medio appennino; il castagneto di Sologno, nei pressi dell’ospitale di Campo Camelasio è ancora noto per la qualità pregiata dei suoi frutti (“la bionda di Sologno”).
Alcuni mesi fa Carlo Petrini dichiarava che le castagne avrebbero salvato il mondo e descriveva l’Italia come “un paesaggio di vite, ulivo e castagne: l’ulivo lungo le coste, la vite sulle colline… in montagna il castagno”. Di lì a poco invitato a discorrere di ecologia integrale con Papa Francesco sceglieva come luogo dell’incontro un castagneto. Noi, più realisticamente, diciamo che ci piace immaginare il nostro Appennino come una distesa di foraggere nelle valli e nel piano fino ai confini dei boschi e dei castagneti che continuano a rivestire i fianchi delle montagne.
